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Un ritratto alla siciliana
di Federico Guastella
Agile per la levità della scrittura e complesso per la profondità
delle tematiche trattate, il libro di Marco Trainito ANDREA
CAMILLERI, sottotitolato Ritratto dello scrittore (Treviso,
Anordest 2009, pp. 254), si presenta con una copertina abbellita dalla
fotografia recante l’immagine della casa a mare di Montalbano lungo la
spiaggia di “Punta Secca”, nel ragusano.
Nel risvolto di
copertina risulta così sintetizzato sia la natura che lo scopo dello
scritto: “un saggio e un’introduzione generale all’opera di Andrea
Camilleri (…) accessibile al pubblico sia dei lettori accaniti del
grande scrittore siciliano sia di quelli che ancora non si sono
cimentati con le sue opere”. Dedicato al padre Nenè, si compone di una
premessa, di tre capitoli ciascuno dei quali, viene suddiviso in
quattro paragrafi, nonché di una essenziale bibliografia.
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Già nella premessa Trainito fissa alcune ascendenze di Camilleri, tra cui la
presenza ineliminabile di Pirandello: il suo insegnamento, afferma il
critico, che è entrato “nella carne viva della sua parola, traendo una
lezione di metodo, di stile e di poetica”. A partire da questa riflessione,
egli poi percorre uno spazio tanto vasto, avvalendosi di numerose letture di
libri da cui trarre gli ingredienti necessari alla costruzione della sua
interpretazione.
Il capitolo primo, dopo alcune notazioni bio-bibliografiche, individua
nel romanzo Un filo di fumo (edito la prima volta da Garzanti nel
1980 e premiato a Gela nel 1981) il nucleo essenziale della produzione di
Camilleri: “vero e proprio generatore per le opere degli anni Novanta che
hanno dato allo scrittore un clamoroso successo di pubblico”. In maniera
chiara e dettagliata, ne riporta la trama e sintetizza il pensiero dei
critici più autorevoli, quali Bruno Porcelli e Maria de Las Lieves Muñiz
Muñiz.
Il dissenso con Gianni Bonina che, ne Il corso delle cose (1978)
aveva visto la genesi del “nascente planisfero camilleriano”, è chiaro. A
conti fatti, le argomentazioni addotte a sostegno della tesi di Trainito
appaiono convincenti. Sia la strategia compositiva adottata (la tecnica
della mise en abyme) sia le strutture conoscitive (l’invenzione di
Vigàta, nonché la spiccata vocazione socio-antropologica nel contesto
post-unitario fin quasi all’avventura dei Fasci Siciliani) e le sonorità
segniche (l’invenzione d’una inconfondibile lingua corredata di un
glossario, funzionale alla resa espressiva della comunità dei parlanti
nativi), sono i motivi che incideranno di più nella stesura delle successive
opere. Inoltre, il revisionismo del Risorgimento, documentato da due
Commissioni d’Inchiesta, sarà poi ripreso, ad esempio, nei romanzi La
bolla di componenda, La stagione della caccia, Il birraio di
Preston, La mossa del cavallo…Anche lettere fanno parte
dell’apparato documentario del romanzo Un filo di fumo: dato, questo,
rinvenibile ne La luna di carta (2005), ne La vampa d’agosto
(2006) e ne Il campo del vasaio (2008), dove il commissario
Montalbano scrive a se stesso per mettere in ordine le varie tessere delle
sue indagini. “L’apice di questa tecnica – annota Trainito – è (…) raggiunto
ne La scomparsa di Patò: qui Camilleri, inventandolo quasi
interamente, utilizza un dossier che risulta costituito da articoli
di giornali, lettere (scritte a mano o dattiloscritte che fanno avanti e
indietro da un organo all’altro di polizia), rapporti giornalieri e
riservati. Non ci sono capitoli nel libro, la voce dell’io narrante, che si
è trasferita nel documento, risulta assente, e viene affidato al lettore il
compito della decifrazione e riorganizzazione narrativa del materiale.
Le corrispondenze individuate tra il glossario presente ne Il filo di
fumo e Il gioco della mosca (1995, 1997) sono indubbiamente
rilevanti, perché aiutano a ricomporre il puzzle che dà il ritratto
dello scrittore di Porto Empedoche. Al riguardo, Trainito, collocando Il
gioco della mosca nel solco delle preferenze socio-antropologiche
accordate da Sciascia (Kermesse, 1982 - Occhio di capra, 1984)
e da Bufalino ( Museo d’ombre, 1982) alla cosiddetta “scienza certa”
di Borges (quella, cioè, degli affetti di cui in maniera indelebile la
nostra misura umana si è nutrita), può opportunamente parlare di un
“trittico peculiare” per il recupero di espressioni dialettali che
racchiudono “storie cellulari” e si pongono come sintesi di aneddoti ed
episodi locali. Siamo così nel linguaggio che segna l’innesto di proverbi,
di modi dire, di termini dialettali nel codice nazionale. La lingua mista di
cui Camilleri si serve, terragna e sanguigna, esprime con più efficacia i
sentimenti e gli stati d’animo dei suoi personaggi, che parlano utilizzando
il lessico dell’area geografica di provenienza. Trainito non manca, in
proposito, di puntualizzarne la genesi. Attenendosi a quanto dichiarato dal
nostro scrittore in Pagine scelte di Luigi Pirandello, egli, da
studioso ed esperto di filosofia, può ampliarne il quadro teorico di
riferimento e attirare l’attenzione su Gottlob Frege, lo studioso di
semantica che elaborava la sua teoria negli anni in cui Pirandello studiava
a Bonn. La distinzione pirandelliana tra il “concetto” espresso dalla lingua
e il “sentimento” manifestato dal dialetto è quasi identica – scrive il
critico – alla differenza fregeana tra “senso” e “rappresentazione”. Da qui
bisognerebbe muovere per giungere a tutta “l’analisi pragmatica e
antropologica” dei “giochi linguistici” e delle connesse “forme di vita” di
Wittgenstein, anche se il commediografo agrigentino, “con qualche decennio
d’anticipo”, aveva osservato che un dialetto esprime “particolari usi” e
“particolari costumi”.
Vigàta, dunque: spazio immaginario modellato sul territorio reale di
Porto Empedocle. “Nessuna” perché inesistente; “una”, in quanto ha una
storia; “centomila”, ove si consideri la molteplicità delle sue
rappresentazioni diacroniche (dal XVII secolo alla disfatta di Caporetto,
dal fascismo a quella della fiction televisiva e della realtà
virtuale). E’ a questo punto che Trainito si sofferma su alcuni romanzi,
quali La stagione della caccia (1992), La presa di Macallè
(2003), Il colore del sole (2007), Maruzza Musumeci (2007): li
sintetizza con molta padronanza, li commenta con acume e disinvoltura, ne
esplicita con accortezza e accuratezza rapporti intertestuali e
intratestuali.
Ne La presa di Macallè, ad esempio, il senso del narrato, è
attuale nel clima di smarrimento esistenziale che si sta vivendo. E’ la
violenza ad imporsi, a trionfare sull’uso della ragione quando
contraddizioni e sopraffazioni ideologiche, risentimenti e barriere
etnocentriche, pregiudizi e stereotipi, facendo smarrire ogni certezza
etica, trovano ampia risonanza nella mentalità collettiva, di cui il mondo
infantile è parte integrante. Il più vulnerabile e il più fragile, appunto
per la mancanza di esemplari modelli educativi che fanno perdere al
comportamento la corretta direzione civica. Quest’atmosfera Trainito la
analizza, la spiega, la racconta, instaurando apprezzabili confronti con
Eros e Priapo di Gadda. Vi si incontra in ogni sua considerazione sia
una mente coltissima, sia una sottigliezza di sguardo che gli consente di
scoprire rapporti che danno l’idea del complesso universo della scrittura.
“Maruzza Musumeci” – egli poi scrive “merita una particolare attenzione”.
Anche a mio parere, l’opera è degna d’una puntuale ricognizione per il
taglio favolistico che ci dà un diverso tratto dell’identità di Camilleri,
ora rivolto ai miti e alla metafisica del fantastico. La narrazione, pur
collocandosi su uno sfondo di ambientazione rusticana, dilata infatti i suoi
orientamenti di spazio e di tempo per la magia di certi eventi. I “cunti” a
volte scivolano nel surreale, facendo anche pensare alla leggenda di Cola
Pesce (il personaggio metà uomo e metà pesce di cui si era occupato Giuseppe
Pitrè in un suo pregevole studio), nonché alla novella di Tomasi di
Lampedusa La sirena. Riguardo al mondo delle “sirene” sembra
opportuno dire che le distinzioni sono notevoli tra le classiche e quelle
rappresentate da Camilleri. Nel suo immaginario non sono voraci e
distruttive come le perverse maliarde di Omero, ma apprezzano la vita e in
qualità di donne ammalianti stanno soltanto tra gli uomini che non amano il
mare per condividerne le esperienze terrene, tranne nei momenti in cui si
trasformano in sirene per ricongiungersi al proprio passato: quello
ancestrale (pensato dalla scuola ionica) della simbiosi della vita con
l’acqua marina. La grotta sott’acqua in cui Resina, la Sirenetta, porta per
sempre il proprio fratello Cola, studioso di astronomia, rievoca
indubbiamente il racconto lampeduseo in cui l’ondina “Lignea”, dalle
voluttuose sembianze ferali e divine, si incontra con il grecista La Ciura.
Don Fabrizio, che, nel Gattopardo, dinanzi alla fugacità degli eventi, aveva
conosciuto l’astronomia, nei panni di La Ciura verifica ora l’illusione di
una fine abbellita dalla presenza di una figura onirica. La bella e snella
signora apparsa al principe nel momento dell’agonia viene ritrovata nella
sirena per un’eutanasia che gli facilitasse l’inaccettata separazione dalla
vita. Diversa, pur nell’identità del contenitore, appare in Camilleri la
simbologia della medesima “grotta”: non luogo in cui viene saziata la sete
di sonno nirvanico, ma ventre d’una vita generatrice di metamorfosi. Pure
diversa, a mio avviso, la reinterpretazione di Maruzza Musumeci rispetto
alle “femminote” darrighiane. Lo studioso ha sì percepito l’ineludibile
rapporto tra le due realtà, ma ritengo che si sia mantenuto distante da una
puntualizzazione sul diverso modo di sentire di entrambe: tanto “arcigne” e
“lussuriose” le femminote, quanto votata agli affetti la Maruzza di
Camilleri che svolge felicemente la vita in famiglia, dove i componenti sono
legati da un grande vincolo.
Il discorso di Trainito, basato su accostamenti e rimandi, si fa
decisivo nel cogliere i caratteri di Montalbano. Non manca di evidenziare la
suggestione esercitata nell’animo di Camilleri da autori come Geoges
Simenon, Manuel Vàsquez Montalbà, William Faulkner, Dashiell Hammett,
Antonio Pizzuto e Joseph Conrad, mentre “nell’immaginaria biblioteca di
Vigàta” – egli scrive – “non poteva mancare di certo l’autore de La
biblioteca di Babele”. Il nostro critico non resiste, pertanto, alla
tentazione di muoversi in un’indagine di estremo rigore scientifico per
immettersi nel sentiero che conduce all’evoluzione caratterologica di
Montalbano. Il campo d’indagine è l’attenzione rivolta ai suoi mutamenti
psicologici: da una personalità estroversa al ripiegamento
nell’introspezione e nel monologo con il conseguente deterioramento dei
rapporti con le persone che gli stanno vicino (“Livia e Mimì Augello, in
particolare”). Attraverso l’esame delle opere più significative, egli
ripercorre le tappe di quello che chiama “sdoppiamento del sé” e il
fenomeno, con l’uso di un linguaggio desunto dagli apporti della
psicoanalisi, viene così commentato: “Montalbano, compiuti i cinquant’anni,
comincia a sentire il peso della propria vecchiaia e la sua razionalità
stanca tende a deragliare dal principio di realtà e a proiettarsi verso una
dimensione surreale e fantasmagorica”.
Come non
pensare a La luna di carta, dove il commissario è alle prese con
l’irreversibilità del tempo che lo sta destinando alla
senescenza?
“Quanno
viene il jorno della tò morti…”: questo il pensiero improvviso, alle sei
del mattino, di Montalbano, ed esso non se ne andava più fino a diventare
un vero e proprio chiodo fisso, magari nascosto in qualche angolo del suo
cervello per aggallare quanto meno se l’aspettava.
Attenta è
la rilevazione della dinamica che sta coinvolgendo il commissario e le
osservazioni sono abbastanza calzanti: “Montalbano non ha mai usato appunti,
contrariamente ad esempio al tenente Colombo, che non si separa mai dal suo
taccuino. Ma ora Montalbano, a causa dell’età, comincia a dimenticare più
facilmente. Che fare? (…). La lettera, dunque, diventa lo strumento che la
parte più lucida e attenta di Montalbano, raccoltasi in pensosa
concentrazione, usa per dare una mano al resto della persona del commissario
immersa in mille e stressanti faccende quotidiane e preda di pensieri neri
sul declino della vita”. E’ il tema del doppio, dunque, a suggestionare il
nostro critico fino a ipotizzare una poliedrica fenomenologia dello
sdoppiamento lungo un percorso che alla fine acquista il senso d’una
accettazione della propria condizione, come risulta dalla lettera che egli
si scrive ne La vampa d’agosto (2006): da un rapporto inizialmente
più distaccato e diffidente di sé, il commissario giunge a “un’accresciuta
familiarità con l’altro da Sé”.
La mia
attenzione va ora rivolta al capitolo finale intitolato “Dalle bolle ai
pizzini, lo spirito laico di Camilleri”. Sul piano letterario, il punto di
partenza della questione “mafia” viene individuato nella novella di Verga
La chiave d’oro. Trattandosi d’un racconto quasi sconosciuto, Trainito
ne riporta il testo, dove è agevole riscontrare la presenza di tutti gli
elementi atti a caratterizzare tale fenomeno, tra cui – precisa lo studioso
–la “componenda”, cioè “il mettersi d’accordo tra galantuomini”. Proprio su
tale accordo verte il romanzo di Camilleri La bolla di componenda.
Tante sono
le storie a caratterizzarlo e pongono l’accento sulla connesione tra un tipo
di cattolicesimo accomodante e i reati commessi da delinquenti (furto,
corruzione, abigeato, falsa testimonianza), nonché da coloro (uomo o donna),
che facevano mercimonio del proprio corpo. Nasce da qui il termine “componenda”:
“accordo”, “patto non scritto”, “compromesso”. In tal senso, si è espresso
Gino Pallotta nel Dizionario storico della mafia (Roma, 1977). Per
cui, facendo propria questa definizione, Camilleri può così dirla: forma di
tacita transazione in base alla quale si restituisce in parte o tutto il mal
tolto, tenendo conto della percentuale dovuta per l’intermediazione, a
condizione che venga ritirata la denuncia.
Data
l’attualità del libro, tentiamo di seguire, sia pure con una certa libertà,
il sommario che ne fa Trainito allo scopo di cogliere alcuni tra i passaggi
più significativi.
L’espediente che consente allo scrittore di Porto Empedocle di sviluppare il
racconto è dato dal ritrovamento, fra le carte della propria madre, di una
“Bolla dei luoghi santi”. Muove da qui la sua scrittura sulle indulgenze,
elargite con la vendita di tale bolla da parte dei frati, i quali
assicuravano che essa preservava dai pericoli e dalle calamità naturali. La
distinzione tra la bolla d’indulgenza e quella di componenda è molto
rilevante, pur avendo entrambi parecchi tratti simili nella ritualità con la
quale venivano concesse. La prima sortiva l’effetto di smorzare gli incendi
o scrive Consolo in Retablo di preservare dalle ruberie; la seconda,
invece, veniva venduta, fra il giorno di Natale e l’Epifania: vale a dire –
annota il nostro scrittore – nei due sensi opposti – il passato e
l’avvenire. L’intento stavolta era la discolpa di reati commessi, tranne
quello dell’omicidio. L’autorità che la emanava almeno doveva essere un
vescovo, mentre, il più delle volte, i parroci, avendo coscienza di questo
operato fosse fondato sul male, delegavano il sagrestano all’adempimento
dell’ingrato compito. In sostanza, si trattava di un Pactum sceleris,
siglato da un tariffario variante a secondo il reato commesso: solo che uno
dei contraenti era la più alta spiritualità, la Chiesa. Sicché, nella
mentalità popolare il furto non è peccato e non bisogna temerne, anche
perché a rubare è lo stesso clero imponendo una tassa, a suo favore, sul
delitto: Gli basta – scrive Stocchi – essere certo (stolta ma
esiziale ricetta) che non andrà “all’inferno”; e da questa unica paura lo
guarentisce l’esempio e l’assoluzione del prete. Il professor Stocchi
era studioso impregnato di storicismo positivistico, preside da qualche
anno del severo e avanzato Regio Ginnasio “Ciullo” di Alcamo, che
s’inserì nei lavori d’una Commissione d’inchiesta con le sue personali
indagini, i cui risultati egli comunicava attraverso lettere. Di questa
inchiesta parlamentare, datata 1875-1876, Camilleri si occupa per porre in
evidenza le omissioni, la genericità delle dichiarazioni che non
compromettevano nessuno, il silenzio appositamente voluto per occultare le
radici del problema: quello, cioè, riguardante la presenza della mafia. Lo
scrittore mostra simpatia per l’opinione del tenente generale Casanova, il
quale sosteneva la necessità di creare nell’Isola le condizioni idonee alla
nascita del progresso, individuate nell’abolizione dei privilegi e delle
influenze nefaste. Egli era arrivato a Palermo il 7 gennaio del 1874 ed era
stato interrogato il 12 novembre del 1875: in due anni aveva avuto
l’opportunità di formarsi un’esatta idea della complessa realtà isolana, e
quando parlava della “bolla”, nutriva il timore dell’ incredulità altrui.
Ad essa Giuseppe Stocchi dedica la seconda lettera intitolata La
questione sociale – Elemento religioso. Camilleri la trascrive nel
capitolo quattordicesimo e la commenta, mettendo in risalto gli aspetti di
maggiore rilievo, quale la relazione inscindibile tra religiosità e
superstizione del siciliano.
Nel
corso della narrazione il lettore si trova dinanzi a un commento, dolce e
amaro nel medesimo tempo: che l’uso della bolla di componenda sia
scomparso non può che rallegrarmi. Anche se rimane la componenda: la
versione laica e in un certo senso addomesticata dell’autentica e originaria
bolla di componenda. “Componenda”, dunque, che non si volle
applicare nei cosiddetti “anni di piombo”: la bolla (…) ci avrebbe
risparmiato, non la scia di sangue certamente, ma la tarantella dei
pentimenti, delle dissociazioni, della crisi di coscienza, dei rimorsi, dei
distinguo, dei cristiani perdoni. Tutti, assassini o no, innocenti o
colpevoli, avremmo goduto di “tranquilla coscienza”. L’epilogo non
sfugge all’attualità. Della componenda “laica” è rimasta la legalizzazione
degli intrallazzi; in particolare, l’accordo della mafia con la politica,
volto ad amalgamare il giusto con l’ingiusto e a rinsaldare i legami fra
legalità e illegalità in un patto nascosto di coesistenza. Patto che,
tuttavia, non esiste: non c’è un documento scritto che ne parli, perciò esso
si riduce ad una “bolla di sapone”, appunto per evitare che rimanga
qualsiasi traccia dell’irredimibile compromesso fra il bene e il male.
Uno
sguardo d’insieme meritano, infine, gli ultimi due paragrafi del terzo
capitolo. Il numero 3., intitolato I pizzini di Provenzano e la mafia
clericale, si muove nell’ottica d’una religiosità distorta: quella
tipica degli uomini di mafia che, nonostante i loro crimini, credono in Dio
e lo pregano. Il moralismo dei buoni costumi non è assente dai biglietti (“pizzini”)
che indirizzano ad amici e parenti così come viene invocata la volontà
divina con umiltà e atteggiamento di servizio. Per la comprensione di tale
curioso fenomeno, i testi di riferimento, specifica Trainito, sono La
religiosità di Provenzano (lectio Doctoralis tenuta da Camilleri
il 3 maggio 2007 a L’Aquila) e Voi non sapete, l’alfabeto mafioso in
sessanta voci uscito presso Mondatori nell’ottobre dello stesso anno. Una
cosa che interessa sottolineare, egli specifica, è l’accenno dei mafiosi ai
preti definiti “intelligenti”: quelli, cioè, “che non considerano la mafia
un peccato e che non di rado sono loro consiglieri e padri spirituali. La
collusione, dunque, tra clero “intelligente”e mafia: “Provenzano,
addirittura, teneva, nel suo ultimo covo un vero e proprio arsenale
religioso”. La religione al servizio del potere non può che fabbricare un
universo di tenebre. Religiosità fatta di coreografia, esteriorità,
idolatria e superstizione aveva già notato nel 1945 Sebastiano Aglianò
(ricordato da Camilleri sia nella Lectio che in Voi non sapete)
in Che cos’è questa Sicilia?, opera doverosamente citata dal nostro
studioso, unitamente a La Gita a Tindari, in cui il capomafia don
Balduccio Sinagra è assistito da un prete che si fa da tramite tra lui e
Montalbano per consegnargli il nipote latitante.
Nel
paragrafo 4. le domande poste da Trainito sono inquietanti: “Com’è possibile
che si sia creata una convergenza così plateale tra le forze del male e i
custodi del messaggio evangelico, tra il diavolo e l’acqua santa? E’ il
diavolo che è davvero e per natura un portatore di luce o è l’acqua santa
che è avvelenata ne pozzo?
La
risposta egli la trova in uno scritto di Sciascia e nel lavoro di Borges
Evaristo Carriego. Riporta brani di entrambi, li commenta attraverso il
filtro del Don Chisciotte, trova rispondenze tra il modo di sentire
degli argentini e dei siciliani intorno allo Stato e alle sue leggi e pone
in evidenza che la logica “non è dissimile da quella che Camilleri prima
mette in bocca a Balduccio Sinagra e poi vede incarnata nella religiosità di
Provengano”. La spiegazione data da Trainito appare però unilaterale e di
parte (la credenza in un ordine divino superiore e trascendente che si
connette con la svalutazione delle leggi di uno Stato di diritto, nonché
della giustizia), ma non c’è dubbio che il clero (in maggioranza o
minoranza, non importa) si sia reso e si rende responsabile di connivenze di
comodo, contrastanti con l’autenticità del messaggio cristiano. Come a dire
che la “componenda”, a prescindere dagli interlocutori (politici, affaristi
o religiosi che siano) sta sempre in agguato, pronta ad essere siglata
all’insegna di avidi interessi che legittimano il crimine a danno alla
comunità.

Marco Trainito |
La
conclusione del mio itinerario è ormai evidente. Il titolo dato da
Trainito al suo libro, posso ora dirlo, appare riduttivo rispetto alla
profondità della ricerca e documentazione, delle considerazioni
(condivisibili o meno) e dei riferimenti ampiamente colti che denotano
il possesso di poderose attrezzature mentali. Dal ritratto che egli fa
di Camilleri, oltre a spiccare l’invenzione di diversi generi
letterari, si ricava l’attualità dello scrittore: l’impegno etico e
della responsabilità che si staglia in un’esperienza plurilinguistica
che va dalla tradizione realistica (dalla colonna infame di Manzoni
al documento sociologico di Leonardo Sciacia) alla favola onirica e
tragicomica (dal realismo magico di Marquèz all’ironia divertita di
Bufalino), alle scelte stilistiche. Tutto questo, in definitiva, dà la
misura d’una spiccata coscienza critica e d’una ricerca della verità,
al di là di pregiudizi e stereotipi, del tutto demistificati. |
Federico
Guastella
giugno
2010